Albe Edizioni Milano

Gabriele Dadati recensisce “Susanna e gli orchi”

All’inizio di «Susanna e gli orchi» (Albe Edizioni, 2018) c’è un rastrellamento: siamo nel 1942 e la bambina del titolo finisce deportata con i genitori nello stesso campo a cui è destinata anche Ingrid – tedesca, ma rea di aver sposato un avvocato ebreo e quindi di aver messo a repentaglio la purezza della razza – insieme a tanti altri. Solo che i più piccoli a Berezowka, in Transnitria, non dovrebbero esserci. Susanna è qui soltanto perché con una certa destrezza Jakob, il padre, è riuscito a nasconderla sotto un ampio cappotto al momento di salire sul vagone che gli era stato indicato. E ora che sono arrivati, si tratta di nasconderla.

All’inizio di «Susanna e gli orchi», però, c’è anche una giovane donna che assiste sua madre sul letto di morte: siamo a Gerusalemme, nel giugno del 1967, e questa giovane donna è ancora una volta Susanna.

All’inizio di «Susanna e gli orchi» c’è infine il Principe Şobolan che sta radunando le sue truppe: lui è un topo, certo, ma quando sarà il momento non comanderà solo ai suoi simili. In battaglia potrà contare anche sulla schiera dei vermi, sull’esercito delle formiche e sullo sciame delle mosche.

«Susanna e gli orchi», il nuovo romanzo scritto a quattro mani da Mariella Ottino e Silvio Conte, è quindi un fascio di storie organizzate tutte attorno a un centro: la buca che alcuni deportati scavano nella loro baracca perché Susanna possa sfuggire alle SS, nascosta sotto una catasta di legna un giorno dopo l’altro, per mesi. È qui che la bambina, grazie alla sua fantasia, incontra il topo Sobolan, un prezioso alleato che nell’immediato permette di sconfiggere la solitudine e presto aiuterà forse gli ebrei contro le SS. Solo la sera, dopo la massacrante giornata di lavoro (i prigionieri stanno costruendo una strada), a Susanna è concesso di uscire per ricevere le coccole dei genitori e di tutti gli altri abitanti della baracca. Per il resto sta nella buca. A tal punto separata dal dramma in corso, che potrà conoscerlo davvero solo nel 1967, quando pur sedata la madre le racconterà magicamente di quei giorni prima di andarsene.

Mariella Ottino e Silvio Conte fanno marciare parallele queste e altre vicende, che nonostante siano collocate su piani diversi (passato e presente, realtà e fantasia) riescono a intrecciarsi efficacemente in un libro che è insieme una lettura che procede spedita e una bella dimostrazione di come si possa ancora mettere alla prova la forma-romanzo traendone soddisfazione. Rinnovando a proprio modo quel senso di incanto che abbiamo conosciuto in film come «La vita è bella» (1997) e «Train de vie» (1998) – pellicole non a caso di fine anni Novanta, quando ancora un certo tipo di invenzione stralunata era rivolta a tutto il pubblico e non solo ai più piccoli, come sembra essere oggi – la narrazione di «Susanna e gli orchi» non distoglie però lo sguardo nei momenti più duri, vale a dire quelli in cui i prigionieri vengono percossi o uccisi. Non se ne compiace, certo, né vi si dilunga, ma visto che ancora una volta si tratta, fondamentalmente, di un’opera che intende fare memoria di una pagina atroce della nostra storia, non li nega.

Esiste una funzione risarcitoria della fantasticheria ancor prima che della letteratura che ci permette di immaginare un finale migliore di quello che una certa vicenda ha avuto. «Susanna e gli orchi» non solo ci mostra un mondo in cui alla fine le SS (gli orchi del titolo) sono più in difficoltà dei prigionieri stessi. Nella postfazione ci informa sul fatto che almeno per una volta andò davvero così: Susanne Raweh, alla cui storia il romanzo si ispira, si salvò sul serio passando le sue giornate in una buca.

Il volume è completato dalle belle tavole in bianco e nero dell’argentino David Rodríguez e impiega come font principale il TestMe Sans 02, studiato per facilitare la lettura.

Fonte: https://www.letteratour.it/nuovi-autori/ottino-conte-susanna-e-gli-orchi.asp?fbclid=IwAR0vcjY28-wNRdU5VLusUEf0R7GH5pgjKKoYkMlDkAVzmBuNfm-tRySe1Fg#.XuDoTO2xwG8.facebook

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